michele-o-pazzoMedia Aetas Teatro
presenta
L’Opera Buffa del Giovedì Santo
Commedia per musica in tre atti e quattro quadri
di Roberto De Simone
scene Mauro Carosi
costumi Odette Nicoletti
coreografie Micha Van Hoecke
Direttore d’Orchestra Domenico Virgili
regia Roberto De Simone

con
Virgilio Villani, Patrizia Spinosi, Raffaello Converso,
Angelo Smimmo, Gianni De Feo, Maria Grazia Schiavo,
Giuseppe Parisi, Anna Fiorelli, Maria Del Monte, Pina Giarmanà, Giulio Liguori, Simonetta Cartia, Tamara Pintus, Luigi Biancardi, Fiorenza Calogero, Luigi Del Giudice, Gennaro Maddaloni e con la partecipazione di Sal Da Vinci.
 

2000
dal 12 al 16 gennaio Prato, Teatro Metastasio
dal 8 al 27 febbraio Napoli, Teatro Augusteo
dal 3 al 5 marzo Jesi, Teatro Pergolesi
dal 16 al 19 marzo Salerno, Teatro Verdi
2 maggio Trapani, Teatro dell’Università
dal 3 al 7 maggio Messina
dal 9 al 14 ottobre Udine, Teatro Giovanni da Udine
16 e 17 ottobre Monfalcone, Teatro Comunale
10 dicembre Casalmaggiore, Teatro Comunale
dal 12 al 15 dicembre Lugo, Teatro Rossini
dal 28 al 31 dicembre Firenze, Teatro della Pergola

2001
dal 2 al 7 gennaio Firenze, Teatro della Pergola
9 e 10 gennaio Cesena, Teatro Comun. A. Bonci
20 e 21 gennaio Ferrara, Teatro Comunale
23 gennaio Caivano, Auditorium Caivano Arte
dal 9 al 11 febbraio Pisa, Teatro Verdi
dal 6 al 18 marzo Milano, Teatro Piccolo
dal 17 al 29 aprile Roma, Teatro Quirino
dal 7 al 10 maggio Bari, Teatro Piccinni
11 e 12 maggio Barletta, Teatro Curci
dal 16 al 19 maggio Forlì, Teatro Fabbri
dal 1 al 6 novembre Trento, Teatro Sociale

L’Opera buffa del giovedì santo di De Simone al Quirino di Roma
(aprile 2001)

INTERRELAZIONI NAPOLETANE. L’OPERA BUFFA DI DE SIMONE ANALIZZATA ATTRAVERSO L’ANTIARTE DI FRANCIONE.

di Gigi Trilemma

Il lavoro di De Simone che qui esaminiamo in chiave antiartistica si ispira all’opera buffa settecentesca, un genere che si sviluppò soprattutto nella Napoli del Settecento con autori come Galuppi, Pergolesi, Paisiello e Cimarosa per contrastare l’opera seria metastasiana, là dove bandiva rigorosamente la libera mescolanza di tragico e comico tipica di tanta opera secentesca. All’idealizzata astrattezza dei personaggi metastasiani l’opera buffa contrapponeva personaggi reali, concreti, protagonisti di vicende assai più vicine alla realtà contemporanea, generando un teatro talmente sanguigno e multiplo che gli enciclopedisti francesi lo esaltarono come la nuova forma antiaccademica di teatro borghese, da contrapporre ai fasti aulici della tragédie-lyrique.
Saltando dal Settecento all’Opera Buffa ri-costruita da De Simone due secoli dopo il testo prende l’avvio da un “giovedì santo” bloccato nel tempo e nello spazio, immoto e in una perenne attesa di una domenica di resurrezione che non verrà mai. La procedura rievocativa si sviluppa “in un labirintico gioco rappresentativo di frammenti storici, di elementi mitici, ritualistici e tradizionali, di segmenti del nostro tempo, drammatici corpi di antica dolenza, di rimandi all’attuale vivere senza memoria, che trova riscontro anche nella realtà napoletana”.
Al lavoro, messo in scena al Teatro Quirino di Roma, ho assistito col mio amico Gennaro Francione, il fondatore del movimento Antiarte, e insieme ci siamo gettati in questo un piatto ghiotto, soprattutto lui napoletano con una foga che mi ricordava Totò di Miseria e nobilità alle prese con gli spaghetti pigliati dal piatto a piene mani dopo tanta fame…. L’ho visto, lui, giudice e drammaturgo della schiera degli Ugo Betti, seguire la rappresentazione con entusiasmo, fazioso (essendo appunto partenopeo) e complice ad un tempo, per aver egli ambientato nello stesso ’700 napoletano la commedia Alchimia dell’Avaro, ovvero la nuova commedia dell’arte che trova nel napoletano, inteso come lingua e gestualità, la sua più naturale espressione.
Attorno a un personaggio classico, l’Avaro, ruota una compagnia di attori per inscenare una truffa spettacolare alchemico-escrementizia al fine di sottrargli soldi e moglie. A guidare la combriccola due maschere nuove, il castrato fallito Fluminella e l’impresario sporcaccione Marchese di Caccavone, in combutta con gl’intramontabili Pulcinella e Palummella. Il perfetto congegno plautino s’interseca con le forme più moderne del teatro uroborico(teatro sul teatro), del teatro totale e del teatro HIV ovvero di Horror italo-vesuviano, parodia in partenopeo del teatro gotico inglese.
L’opera inedita viene qui citata per la similitudine di percorsi di frantumazione e riassemblaggio compiuti da chi, napoletano, voglia scrivere un’opera vecchia, ambientata tre secoli addietro mescolando forme e strutture antiche e moderne, sapientemente amalgamandole nell’unità dello stile, realizzando l’uroboros antiartistico ovvero la circolarità armonica degli elementi.
Sicuramente qui parlo di un movimento che non molti conoscono. E pertanto urge una premessa esplicativa.
La metodologia dell’Antiarte è “innovare ed esplorare nuovi linguaggi, partendo dal presupposto che compito dell’artista, avvalendosi dei nuovi sistemi informatici, ipertestuali e internettiani, è di fare arte per distruggerla in infinite nuove forme attraverso l’alchimia, la chimica, la fisica metaforizzate in chiave estetica”(G. Francione, Le 26 tesi dell’Antiarte, http://www.octava.it/antiarte).
Il primo problema antiartistico da affrontare ad opera di chi scriva un’opera ambientata in altra epoca è quella di attualizzarla. Questo De Simone fa con sagacia nel linguaggio inteso sia come parola che come immagine.
Un rottura vistosa dell’elemento cronico è l’uso di manichini nella parte finale dell’opera che enigmaticamente incombono sull’esito micidiale della rivoluzione napoletana. Sono manichini dechirichiani, ma uno spicca, all’estrema destra, dotato di un testone insieme da antico etrusco e di alieno postmoderno, da solo capace di rompere la quarta parete e di incombere sul pubblico in tutta la sua umanità di automa dolente a testimoniare il dramma di un intero popolo.
Quanto al linguaggio verbale lo stesso De Simone annota la forza combinatoria del suo scrivere. “Ho evitato un linguaggio che potesse riferirsi esclusivamente all’attualità, o comunque a un tempo storicamente determinato. La costruzione si avvale di diversi linguaggi, al fine di realizzare quella indeterminatezza storica, quel tempo sospeso, quella sfumata connotazione del rituale religioso,in cui si accolgono passato e presente, realtà e sogno, senza alcun riferimento a un parlato realistico o naturalistico, vernacolare o in lingua che sia”.
L’antiarte è proprio il contrario dell’hortus conclusus, vale a dire un linguaggio rigorosamente riportato a un tempo-spazio determinato, prediligendo invece l’irrgartenn, il labirinto vegetale del significante e del significato in cui la fusione tra vocaboli di ere diverse porta all’attualizzazione di una tema o al contrario a un voluto invecchiamento a seconda dei ritmi dell’opera che si va a dipanare.
La tecnica decisamente antiartistica e fortemente drammaturgica è la contaminazione tra stili e modalità dell’essere teatrale sia in rapporto al dialetto napoletano che alla lingua italiana. L’antiarte è sorella del clinamen epicureo e utilizza la collisione di atomi semantici per creare strutture drammatiche nei contenuti e nel verbale.
De Simone utilizza nel primo quadro(la Scuola dei Castrati) un linguaggio inventato, antireale, “a metà tra un dialetto di provincia e un napoletano letterario, desunto dallo stile dei libretti settecenteschi di commedie musicali, o di opere buffe, con frequenti allusioni alla cosiddetta parlèsia, ovvero a un gergo tuttora vivo tra gli orchestrali, i posteggiatori e alcune frange della malavita locale”.
Nel secondo quadro(la Scuola dei Mendicanti e delle Prostitute) fonde la parlata plebea, della periferia napoletana, al linguaggio di Pietro Trinchera, commediografo napoletano del secolo XVIII, capace di stilizzare le espressioni popolari, pur mantenendone la violenta carica espressiva, ricca di metafore e di sentenze proverbiali.
Altro tipo di contaminazione antiaccademica è quella di carattere puramente cronotopico come accade per il dialetto di donna Faustina, che parla come un personaggio borghese della fine dell’Ottocento, quasi emergente dal teatro di Eduardo Scarpetta. Uno strumento di fusione chimica antiartistica, vivificante che creerebbe orrore in un pedante drammaturgo filostorico, tutto preso dall’esigenza di collocare ogni cosa al suo posto e al suo tempo con procedura atta a creare non l’animus theatri ma il più legnoso rigor mortis.
Talora la contaminazione desimoniana viene attuata amalgamando il napoletano con lingue straniere, intese come modalità peculiari d’intonazione (così nel terzo quadro donna Carolina parla iperenapoletano con accento germanico) ovvero come fonti di vocaboli, slang etc. sul tipo della tarantella complicata, “una commistione di dialetto e di un gergo anglo-americanese, che si produsse a Napoli nell’ultimo dopoguerra, allo scopo di creare un forte elemento aggregante nel mondo delle prostitute, dei contrabbandieri e dei militari americani”.
In altri casi la contaminatio è frutto di un’improvvisa incursioni di detti, frasi dotte e raffinate nel gergo sfrenato di un popolano. E’ il caso di Michele “‘o pazzo “, alias Michele Marino, personaggio storico capo dei lazzari durante la rivoluzione napoletana del 1799, e giustiziato durante l’immediata restaurazione. Egli parla “un delirante dialetto carnevalesco, pulcinellesco, anche se relazionato grottescamente a espressioni di Rousseau e Voltaire”. Nel quarto quadro, Lionardo, tra l’altro, cita frasi di Marivaux, desunte da La disputa e da Gli attori in buona fede.
Tra le lingue straniere è da ricomprendere anche… l’italiano per cui nel primo quadro “il principe e il rettore si esprimono con espressioni barocche, infarcite di moduli dell’italiano odierno. Nel secondo quadro il principe Clorindo adopera una lingua desunta in gran parte dalle commedie goldoniane. A tale proposito, il rapporto d’amore tra Cardella, stilisticamente connotata da un dialetto letterario, e il principe Clorindo, allude a quella commistione culturale che a Napoli, nel 1700, connotò la produzione musicale della letteratura teatrale e dell’Opera buffa”.
La collocazione dell’opera nel Settecento napoletano inteso come tempo mitico, tempo dell’inizio del mondo, è un’altra connotazione antiartistica che realizza e ritiene preminente nella creazione estetica cogliere quello che Goethe chiamava lo “Spirito del Tempo”. Ciò significa che si lavora sulla sostanza morta, informe, la si sgrossa e quel che rimane del cadavere-arte passata è il nucleo, lo spunto essenziale per una nuova riformulazione di ciò che fu nel tempo dell’attuale. Acchiappato quel nucleo la storia, per così dire, si dipana da sola.
Nell’ambito di tale Spirito Essenziale più che mai il Settecento fu un secolo esoterico, dominato a Napoli dal misterioso Principe di San Severo, grazie alle cui arti, mistificate in Alchimia dell’Avaro, si riesce a convincere l’Avaro che trasformerà la sua materia vile, la cacca in oro. Tutta l’Opera Buffa di De Simone si dipana come una sacra rappresentazione operante su materiali vili trasformati in oro prezioso a partire dall’umano stesso di cui si vanifica la virilità in nome dell’arte e del bel canto. Il personaggio di Titta, come soprano evirato, rappresenta il castrato rituale, “colui che deve morire ” e percorrere con la collettività tutte le tappe del Mistero.
Un tema quello degli evirati cantori che non poteva non affascinare un amante del Settecento come Francione che ne ha tratto spunto per narrarne le gesta in Castramerone. Processo ultramondano agli eunuchi cantori. Nell’atmosfera incantata di un luogo fuori dallo spazio, legato alle magie del Principe di San Severo, misteriosi giudici ammassano migliaia di cantori evirati per processarli, lasciando che ciascuno di essi dipani, attraverso il racconto delle proprie esperienze, il senso stesso della vita e del peccato.
Valgono il successo, il potere, la libertà dei vizi ma forse più di tutto l’immortalità dell’arte la mutilazione indelebile dell’essere fisico? Questa la domanda di fondo cui il gruppo, ammassato come in un tragico coro greco, cerca attraverso una serie di racconti – costruiti alla maniera di un decamerone giudiziario – di dare risposta. Ciò che De Simone fa sinteticamente, il romanzo intesse analiticamente andando a scovare tutti i reconditi accessi di una pratica tanto diabolica per l’esecuzione quanto divina per gli effetti, creando degli autentici usignoli rivestiti di corpi umani.
Anche l’elemento musicale dell’Opera Buffa del Giovedì santo richiama un senso esoterico a partire dallo “Stabat Mater ” eseguito nel Conservatorio nel giorno del giovedì santo. Un rito enigmatico che si svolge lungo il percorso dei dodici brani musicali, scanditi come le dodici ore di una notte o le ventiquattro ore di un Orologio della Passione, che si consuma sul lamento perenne proprio dello Stabat Mater.
L’antiarte è contaminazione, esaltazione del clinamen epicureo, ma anche proliferazione il cui primo momento è la duplicazione dell’essere. L’Antiarte è, infatti, Antifasi, figura che nel linguaggio della logica di Aristotele implica la medesima predicabilità di una cosa e del suo opposto rispetto a un oggetto. Ma l’Antiarte è anche Alchimia. Essa lavora con l’alto e col basso, nella dimensione in cui l’alto e il basso coincidono. In tal senso lo schema emblematico dell’Antiarte è da un lato l’opera semiseria o semicomica, fusione del dramma e del comico difesa dall’opera buffa, dall’altra il Doppelgänger figura bivalente usata da De Simone a piene mani.
“Nel labirinto dei quattro quadri, i personaggi assumono spesso doppia connotazione. Nel secondo quadro Titta prende le vesti del principe Clorindo, e il maestrino Lionardo, come gemello rituale di Titta, veste i panni del mendicante Fonzo. Lo svelamento avviene alla fine del quadro, quando Titta, disconosciuto dalla madre come figlio del principe, diventa un mendicante, e Fonzo si veste con abiti principeschi. In tal senso, la coppia Titta-Lionardo si rappresenta con fasi di alternanza in ascesa e in discesa, celesti e infere, caratteristiche di alcune divinità antiche e di santi cattolici di tipo popolare (Castore e Polluce, Santa Cosma e San Damiano, ecc. ).Ma con caratteristiche ambigue si configura anche il principe del primo quadro che successivamente prende i connotati del mendicante Pacicco, per vestirsi, nel terzo quadro degli abiti donneschi di donna Carolina.Allo stesso modo, Ciannella si mostra di giorno come vergine monaca, e di notte come prostituta e sacerdotessa di violenti riti dionisiaci. Conseguentemente, alla fine del secondo quadro, in preda a furore e invasamento, quasi Agave baccantica, ella uccide il marito Pacicco nel momento che questi induce il figlio Fonzo a esprimere un rapporto di incesto con lei”.
La moltiplicazione dei corpi-ruoli è un escamotage predicato dall’Antiarte per vivificare il passato. L’impresa sull’arte passata è medianica e alchemica da un tempo. Si tratta di ridare vita, o meglio alito, a delle splendide, meravigliose, mummie. Operazione del tutto antitetica a quella del principe di San Severo che secondo la leggenda popolare con le sue manipolazioni demoniache aveva ucciso due creature(ora conservate nella Cavea della Cappella di san Severo) per sperimentare su di esse un liquido metallizzante. Nel laboratorio teatrale e antiartistico si tratta al contrario di riprodurre in vitro l’homunculus, creatura animata dallo spirito di tempi e spazi del tutto divergenti.
L’operazione è perfettamente riuscita a De Simone, creando una macchina alchemica ora seria e aurifera, ora semiseria buffa e cafonesca. La sua Opera Buffa procede alimentando spazi, personaggi, musica, fonemi di una vitalità popolaresca e raffinata, inglobata armonicamente nella sospensione eterna verso una rivoluzione che non arriverà mai. Da qui il paradosso del Sangue del Popolo che si dipana in scena come un grande Sogno. E il Sogno è, uroboricamente, la fonte prima dell’Alchimia.

Una Risposta a “L’opera buffa del giovedì santo.”
  1. [...] scoperto casualmente la sua Opera buffa del Giovedì Santo (ci sono in giro anche un po’ di foto dell’allestimento del 2001) e sono rimasto molto colpito. Tanto colpito da desiderare davvero [...]

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